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Persi in noi stessi

 

di Federico Migliori


Il 16 giugno scorso usciva, su un’anonima sotto-pagina del sito del Ministero della Salute, un’indagine sull'impatto psicologico del lockdown sulla popolazione. 

I primi effetti, riporta lo studio, si notano nell’alterazione del ritmo del sonno, specialmente fra i più giovani. Alterazione che va ben oltre la semplice notte in bianco: si registrano paura del buio (anche negli adulti), risvegli notturni, difficoltà di addormentamento e apnee, oltre che un generale aumento di incubi e sogni lucidi. Le persone che sono rimaste in casa durante i vari lockdown hanno registrato frustrazione e noia, disinteresse per ogni tipo di attività (lavoro, studio, sport…) e nuove emozioni che non erano abituate a gestire. Rimanere soli con sé stessi, scoprire un nuovo tipo di dolore e sofferenza, comune ma al contempo personale, ha scatenato veri e propri stati depressivi. 

Ma non è solo il rapporto del singolo con sé stesso ad essere entrato crisi: la società intera appare estranea e distante, complici sicuramente i periodi di reclusione forzata, che destabilizzano i rapporti col prossimo e portano ad avere una vita sociale altalenante. Quello che in Italia era già un fenomeno diffuso in tempi pre-covid, la sindrome hikikomori, letteralmente “trattenersi, stare in disparte”, è ora in crescita. I soggetti naturalmente predisposti al ritiro dalla socialità rischiano di abituarsi alla vita in quarantena. A questo si aggiunge il fattore psicologico della paura dell’altro, visto come un possibile “untore”, fattore che invita ulteriormente alla quarantena autoimposta, al ritiro più totale, anche per bisogni o azioni quotidiane. Viviamo nella paura di noi stessi e dell’altro. Gli organi di stampa stanno perdendo la fiducia del pubblico, le notizie false sono all’ordine del giorno, le smentite arrivano ogni ora, i titoli altisonanti o sensazionalistici contano più della notizia vera e propria. In cosa credere dunque? È questo il momento in cui attecchisce il fenomeno della rimozione, della rivisitazione e della negazione. Il contatto con la morte, con il fatto di essere mortali, con il dolore della perdita, possono risultare inaffrontabili senza la rimozione. Molti fenomeni di negazionismo nascono proprio da queste situazioni di debolezza, spiega Maria Silvana Patti, psicologa e responsabile dell’unità di terapia post-traumatica dell’Associazione per la ricerca in psicologia clinica (Arp) di Milano. 

Viviamo in un limbo in cui il futuro è solo progressione temporale: senza certezze, senza piani e senza sogni, quando il pianificare e il progettare sono caratteristiche necessarie all’essere umano per poter sperare in qualcosa, in un miglioramento. 

Nessuno di questi effetti è sconosciuto: mentre l’anno scorso in Italia venivano identificati i primi casi di Covid-19, la rivista scientifica The Lancet pubblicava un articolo sugli effetti psicologici delle pandemie di Sars, Ebola e Mers, contro le quali è stata impiegata la quarantena come metodo contenitivo. In tutte le epidemie esaminate dallo studio, l’isolamento ha prodotto una serie di disturbi psicologici, tra cui stress post-traumatico, confusione, rabbia, paura e insonnia. Com’era prevedibile anche con il nuovo coronavirus è successo qualcosa di simile. Un altro studio, pubblicato al termine del primo lockdown su The Lancet Psychiatry, ha evidenziato come la pandemia abbia acuito le differenze fra fasce di popolazione diverse: se i più vulnerabili al virus sono gli anziani, i più esposti dal punto di vista psicologico sono invece i giovani, che vedono la loro vita sociale pressoché azzerata. Effetti ancora più gravi si sono registrati tra i giovanissimi (6-15 anni), che assimilano le ansie e le preoccupazioni dei genitori; questi, inconsciamente, riversano sui figli il proprio malessere, incidendo sul loro sviluppo e maturazione emotiva. Molte famiglie, poi, si sono trasformate: sfasciate da un lutto o da una relazione interrotta, le coppie si sono allontanate, nascono meno figli e aumenta il numero di abusi e violenze fra le mura domestiche, sia su donne che uomini. 

La situazione pandemica è relativamente nuova, anche per gli psicologi e gli psicoterapeuti che si trovano a dover gestire un numero sempre maggiore di pazienti (+65% a maggio 2020). Manca la letteratura a riguardo, le diagnosi sono più complesse e spesso ci si limita ad offrire un servizio di ascolto, ovviamente solo per chi è disposto ad ammettere le proprie debolezze e chiedere aiuto. Gli altri si perdono. È fondamentale occuparsi di tutti gli aspetti della pandemia corrente; ci sono effetti che rischiano di mutare socialità ed equilibri proprio perché, a differenza di ospedali pieni e crisi economiche, non sono visibili, passano inosservati, ma investono noi stessi e chi ci circonda.




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