di Davide Caretto
…che accada qualcosa, ed è nella nebulosità di quel qualcosa che si definiscono ansie, illusioni, disincanti, dolori, gioie, speranze e paure. Ma per quanto possano essere contraddittorie queste parole, la nostra mente viaggerà sempre tra questi spazi inconciliabili, a volte inconsciamente.
Nella letteratura, il tema dell’attesa si è mostrato in varie sfumature.
Dino Buzzati, ne “Il deserto dei Tartari”, descrive l’interminabile attesa di una squadra militare di inizio novecento che attende il compiersi di un gesto eroico: l’attacco contro i Tartari. Questo gesto eroico si trasformerà nella raison d'être dei personaggi. Ciò accade perché l’attesa ha corrotto la sfera psicologica di chi ci era immerso, ha deviato i pensieri dell’uomo rendendolo naufrago in un oceano da cui è difficile tornare.
Samuel Beckett, con la tragicommedia “Waiting for Godot”, proietta i personaggi in un vuoto atemporale e aspaziale plasmato dall’attesa stessa di “Godot”. Ma l’identità di quest’ultimo non si farà mai manifesta, è indefinita e i protagonisti sono intrappolati nei loro dubbi, le loro perplessità e la loro inettitudine.
Ma l’attesa è anche l’espressione più alta di libertà esistenziale, una nausea sartriana, un’angoscia kierkegaardiana: noi siamo esistenzialmente liberi, ma questa libertà accresce il “vuoto” della nostra esistenza. Dunque saremo sempre più nauseati da questa vuota libertà e resteremo in attesa che qualcosa cambi questa condizione, in qualche modo. Ma sfortunatamente l’uomo è condannato ad agire autonomamente, è solo, e quindi… aspetta.
Si può leggere una rassicurazione nelle parole di Seneca, il quale esortava l’amico Lucilio a smettere di pensare al futuro incerto e di “gettare la mano nell’oggi”, a eliminare l’attesa del futuro per agire nel presente. Ma per cosa? A quale scopo? Soprattutto, è davvero possibile? L’uomo contemporaneo, è davvero capace di non vaneggiare nell’infinità della sua mente? Di non pensare troppo? Di essere solo prassi quotidiana? In questo periodo nichilistico, come si fa a non essere succubi di sé stessi? Per Svevo ci riuscirebbe solo un uomo sano. Siamo in attesa che accada qualcosa, di voler qualcosa che non arriva, o peggio: quando arriva non è come ce lo siamo immaginati.
Siamo anche in grado di definire, inconsapevolmente, quel qualcosa in determinati momenti, momenti di noia assoluta. Quando siamo “annoiati”, l’unica compagnia prontamente disponibile è quella dei nostri pensieri e dunque… pensiamo: si accrescono desideri, si costruiscono gli scenari ideali o peggiori, si manifestano le nostre paure, si ricordano eventi passati, oppure l’ansia ci assale quando tutti questi pensieri si unificano (rubando le parole a Baudelaire) in un cielo basso e oppressivo che pesa come un coperchio sull’anima.
Ma un altro momento, non del tutto scontato, si trova nei sogni. Infatti, sia secondo le esperienze delle maggior parte di noi sia secondo le teorie freudiane, è comune sognare ciò che si desidera. Nonostante l’astrusità di alcuni sogni, il nostro subconscio proietta in essi i nostri desideri e li soddisfa: guidare, vedere una persona, rivivere memorie, un bacio, un bel voto, mangiare, viaggiare… qualsiasi cosa. D’altronde, anche Lucrezio scrive qualcosa di analogo nel De rerum natura: «[…] essendo quindi la mente più concentrata su quello scopo (scopo al quale ci si dedichi con passione), sono generalmente le stesse cose che ci sembra di incontrare nei sogni». Oppure possiamo riprendere le parole del biologo Purkinje: «La mente non ha voglia di prolungare le tensioni della vita da svegli, anzi vuole rilassarsi e riprendersi. Produce quindi condizioni contrarie a quelle della veglia […] allevia l’attesa vana con la soddisfazione». L’attesa che accada qualcosa è soddisfatta nei sogni.
Tuttavia c’è da ammettere che la soddisfazione immaginaria di un desiderio possiede una sua ambiguità. Chi vive un sogno vive una chimera, e gli stati d’animo di fronte ad essa possono essere molteplici: c’è chi non prova assolutamente nulla; c’è chi è rafforzato dal sogno poiché ha alimentato speranze o ha vissuto momenti di pittoresco escapismo; oppure può peggiorare la condizione reale, può alimentare la voluntas, può far soffrire maggiormente se pensiamo di esserci svegliati da un momento che volevamo vivere in eterno. Infatti, se facciamo affidamento alla “teoria del piacere” leopardiana, capiamo che il nostro desiderio è infinito e il suo conseguimento, seppur fittizio, risponde limitatamente ad una richiesta infinita, ci lascia con l’amaro in bocca. Questo aspetto della psiche umana è così irrazionale, complesso e incomprensibile che l’Io non può far altro che guardare, non può far altro che essere un viandante sul mare di nebbia.
Quid ergo est?
L’attesa sembra essere la nostra condizione esistenziale. Anzi, è la manifestazione di ciò che siamo: il nulla immerso nel nulla, l’ago nel pagliaio che aspetta di essere trovato, il naufrago che spera nel passaggio fortuito di una nave. Siamo Joseph K. del celebre romanzo kafkiano “Il processo”: soli, illusi, in attesa di un processo di cui non conosciamo la causa, giustiziati per colpe mai avute.
Si può trasformare l’attesa in un piacere? Certo, ma bisogna essere capaci di dosare il tempo, cogliere l’attimo giusto. Se si attende a lungo, l’attesa diventa satura di autoinganni che portano all’azione peggiore: l’inazione. Essa vanifica ogni speranza, ogni sforzo, annulla la nostra volontà, non sarebbe ammissibile.
Cosa ci rimane? L’accettazione.
L’accettare questa condizione così paradossale, così irrazionale, che ci getta nella cella fredda della nostra mente.
L’ammirarla da lontano e ricordarla una volta vissuta.
Lasciarla crescere e farsi trasportare da ciò che ci fa dire, da ciò che ci fa desiderare, da ciò che ci fa sperare.
È incomprensibile.
Eppure fa parte di noi.
Disperazione, Edvard Munch, 1892, Olio su tela.
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