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A ciascuno il suo

 

di Cecilia Orlandi

Esiste una frase, semplice, abituale, che in una sincopata brevità estende le sue mille e più braccia a disparati, diversissimi ambiti. Una sentenza avvezza a farsi ripetere, instancabilmente, ed anche a farsi interpretare. Chi può affermare di non essersi mai sentito dire, con una nota di ridente ovvietà, che siamo tutti uguali? Un concetto che quasi disarma con questa implicita applicazione in una vastità di settori. Certo, si fa riferimento all'uguaglianza giuridica, la più lampante, sacrosanta, e per la cui garanzia tuttora, alle volte, si combatte. Da questa innegabile condizione legislativa si tende però a giungere, attraverso un avvicendarsi di consecuzioni evolutesi a braccetto con il pensiero comune, ad una di tipo individuale, sfociando così in una sorta di connaturato e presunto giusto conformismo. La divisione tra le varie implicazioni dell'essere "tutti uguali" è frastagliata, e il rischio è quello di trascendere in un estremismo di uniformità e appiattimento. Non solo: se si ha l'ardore di distaccarsi da una simile attitudine si viene facilmente additati come esaltati o irrispettosi. In tali termini è scontato per chiunque dissociarsi da questa reazione ma nel concreto se si parla di "preservare" la propria cultura ecco allora che i più si ergono unanimi ed agguerriti contro questa ribelle affermazione. 

Ed è qui che vengono messi in luce l'erroneità e soprattutto i pregiudizi che dagli insorti zampillano e che ingiustamente schizzano chi, di denigratorio, non intendeva proprio nulla. Il sentimento patriottico sorto con fervore nell'Ottocento viene oggi macchiato con una valenza negativa, con la convinzione che in primis le nascenti anime romantiche del periodo, certe della loro superiorità, disprezzassero tutto ciò che si trovava al di là dei confini nazionali. A questa asserzione è facile controbattere: non soltanto gli emergenti artisti non covavano alcuna ostilità verso i popoli distanti dal bel paese ma erano anzi fortemente attratti dai loro aspetti "esotici", che al contempo rappresentavano un richiamo alla fuga e all'evasione - metaforica ma non solo - dalla monotonia della loro quotidianità. Esempio classico è quello delle stampe giapponesi, di cui Émile Zola fu tra i primi appassionati collezionisti, che con i loro eterei pastelli e fatate composizioni non potevano certo dirsi simili alle produzioni artistiche italiane. Ad una lettura poco profonda un contestatore potrebbe concepirla come una curiosa contraddizione, non cogliendo l'intento primario che il movimento proponeva: in due parole, celebrare l'unicità. Un principio questo estendibile dall'anticonformismo del singolo, determinato e risoluto a non piegarsi alle convenzioni, fino al piano della società nel suo insieme. Onorare allora il proprio popolo non è antitetico ad attuare un simile comportamento nei confronti di un altro preso in esame. 

Ora, un'attitudine di questo genere sembrerebbe, tutto sommato, non poi molto distante da quelle già diffuse oggigiorno e, se così fosse, discorrerne risulterebbe superfluo. Ci sono invece con esse divergenze fortemente delineate ed un tratto in particolare risalta più degli altri: se davvero si crede nella preziosità di una cultura allora questa dovrà inevitabilmente rimanere chiusa. Non per l'appunto perché tronfia o superba, non perché avversa al resto del mondo ma con la semplice intenzione di mantenere autentica se stessa così come le altre. Dal momento in cui viene subita una contaminazione esterna, di qualsivoglia provenienza, automaticamente le proprie peculiarità sono destinate a perdersi. Si prenda in considerazione ad esempio il variopinto universo nipponico: difficile non sentirsi ammaliati nel coglierne i più intrinseci aspetti, nell'assaporarne gli squisiti dettagli intrisi d'una profonda anima orientale. Remota, misteriosa, millenaria: se la cultura giapponese si fondesse con altre dove rintracceremmo quel mondo unico che è l'essenza stessa del suo fascino? Le sue tinte lontane verrebbero velate di sfumature a noi molto più note, confuse per giunta se questa mescolanza avvenisse con altri ed altri paesi ancora, magari in contemporanea. Apprezzarla nella sua integrità, unica e distinta, non sarebbe più così scontato, definire il confine dei suoi contorni si rivelerebbe una complicata operazione. 

Forse viene vista come una conseguenza esagerata ma prestando attenzione la si può già ben scorgere ad esempio nel settore gastronomico: buoni gli uramaki con il Philadelphia e il salmone cotto, anzi deliziosi - io stessa ne sono una grande estimatrice - ma non li si spacci per vera cucina giapponese! Insomma, attingere da una cultura straniera per arricchire la propria, come in questo caso, non è controproducente; accorparle assieme però sì, ed il composto ottenuto sarà piatto ed insoddisfacente per l'una tanto quanto per l'altra. 

Attenzione poi ai rischi di una indiscriminata esterofilia: il relativismo conoscitivo pirandelliano - o, se si vuole risalire ai primordi del pensiero filosofico, già quello avanzato da Democrito - non si riferisce a qualunque sfera. O meglio, potrebbe, a parole, concettualmente, ma non avrebbe poi fondamenti pratici: si pensi ad esempio a quei popoli in cui sono diffuse ideologie che nel vecchio continente o non si sono mai propagate o la cui divulgazione risale a secoli addietro, e che oggi sono state ampiamente superate e giudicate innegabilmente scorrette. Se si proclama un figurato avvicinamento tra nazioni distanti vedendo in ciò l'apporto di contributi reciproci, certo non ci si potrebbe riferire a paesi laddove non siano rispettati diritti civili e sociali essenziali propri di una visione occidentale, quali la parità di genere, la libertà di espressione e così via. Mantenere le distanze con i suddetti non significa peccare di superbia: al contrario, consiste nella volontà di non retrocedere da un progresso al quale siamo faticosamente giunti e che è ancora in larga parte in evoluzione e miglioramento. 

In pratica, avere un'idea definita di bene e male non è sempre presuntuoso, a meno che per esempio non si abbia il coraggio di affermare che l'emancipazione della donna o la possibilità di esprimersi liberamente non siano principi indiscutibilmente giusti. E poiché tesi contrarie sono purtroppo largamente diffuse in molti paesi, sarebbe quindi opportuno soppesare con attenzione determinate visioni inclusive. È importante inoltre distinguere quelle tradizioni che possono pregiarsi di definire i tratti d'un patrimonio nazionale, e che meritano quindi di farsi avvertire all'estero, da quelle che si fermano all'essere convenzioni. Che non venga in mente di associare alle prime quelle vedute obsolete ed arretrate citate precedentemente! È arduo, veramente, definire una tradizione sul piano sociale, in così continuo divenire: nella nostra realtà si prenda in considerazione la Chiesa. Si potrebbe sostenere che, tradizionalmente, il cristianesimo incombeva minaccioso sulle genti medievali e che erano pochi i miscredenti che potevano dichiararsi tali in sicurezza. L'Italia acquisì anche la nomea di "stato cattolico", tanto era radicata l'impronta religiosa. Oggi la mentalità è cambiata ma nonostante ciò in numerose famiglie, così come dai primi anni di scuola, vige una sorta di avviamento alla religione e molti bambini si ritrovano coinvolti in attività di catechesi per pura deliberazione dei genitori. Certo, il tentativo ha ben poco successo - l'appoggio ai precetti insegnati deriva da una propria personale scelta, per quanto si sia cercato invano di condizionare il singolo. La religione ha portato ad un innegabile contributo artistico, letterario e via dicendo ma questo non giustifica l'automatico tramandamento dell'essere cristiani, quasi fosse per l'appunto un'essenziale tradizione e non un'adesione legittima e soggettiva, come invece viene considerata dalla dottrina protestante. Con queste precisazioni, ricongiungendoci ad un piano più globale, molti tratti culturali, quali arte, musica, filosofia di vita, possono essere divulgati e stringere la mano ad altri diversi da sé, conoscersi ed apprezzarsi. Una stima ed ammirazione reciproche che sopravvivono però con il mantenimento delle differenze, e che rifuggono da un, vogliamo concedere, forse imprevisto appiattimento. Come a dire che la società dovrebbe brillare come un conglomerato di diverse e dignitose culture, presenti assieme ma distinte nella loro peculiare lucentezza, piuttosto che spegnersi in un uniforme e alternativo monocromo. 


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