di Federico Migliori
Biden ha vinto. Trump non se ne andrà. O meglio, la sua persona sloggerà sicuramente dallo studio ovale, ma il suo spirito no, la sua presenza ideologica non se ne andrà con lui. Il trumpismo, così viene chiamata la corrente politica del vecchio Donald, porta immeritatamente il suo nome. Sì, perché Trump non si è inventato nulla: misoginia, razzismo, omofobia, violenza, disprezzo per le istituzioni, fanatismo e minacce non sono caratteristiche proprie soltanto del suo modo di fare politica, ma appartengono ormai, purtroppo, alla maggioranza dei politici odierni. Trump non è stato spodestato, in un certo senso continua a governare.
Ma cosa sarebbe dovuto succedere secondo gli analisti?
Si era parlato della Blue Wave, un’onda di elettori democratici che avrebbe dovuto sommergere Trump e la “fase trumpista”, riportando al potere un vero statista, non un pazzo. Ma questo non è successo. Sembra che pochi abbiano capito che quella di Trump doveva essere soltanto una fase, un periodo passeggero, dopo il quale il paese sarebbe dovuto tornare in carreggiata, riassestandosi con il recente passato di Obama. Non c’è stato un voto di protesta, o almeno, non c’è stato solo quello. I numeri registrati dal tycoon non sono dovuti soltanto ai suoi sostenitori più fanatici, ma anche ad una folta schiera di giovani che, alla loro prima votazione, hanno optato per una rielezione del presidente uscente.
Perché crescere, maturare, in un determinato contesto politico imprime l’idea che quello che si vede sia effettivamente la normalità; sempre per il motivo che la storia, il passato, è una pellicola in bianco e nero, sbiadita e rovinata, che pochi hanno vissuto, alcuni hanno studiato e molti ignorano. Il trumpismo sedimenterà nelle menti di milioni di cittadini americani, che volevano, vogliono e vorranno un superuomo capace di rendere l’America di nuovo grande. Quanto grande, o come, non ha importanza, l’importante è tornare a esserlo, pure se non lo si è mai stati. Trump e i suoi sentimenti politici, dunque, sono rimasti impressi in molti giovani elettori, generazioni future tanto per capirci, che continueranno a votare per quella frangia politica, e cresceranno i loro figli in quel clima. È un’infinita macchina di elettori.
Lo show sarà pure finito, ma il protagonista è ancora sul palcoscenico.
In un momento di “cura” del paese, per citare lo stesso Biden, l’ostacolo più grande però non sono soltanto i sostenitori più accaniti di Trump, ma gli stessi Democratici che, con un sentimento abbastanza comune e diffuso, pure nel Bel Paese, hanno sempre guardato con superiorità e snobismo i loro avversari, estendendo a loro tutte le critiche mosse allo stesso Trump. Se chi è al potere non vuole “abbassarsi” al livello dell’opposizione, e se l’opposizione, da parte sua, continua a gridare ai brogli, le tempistiche necessarie a sistemare la situazione si allungano notevolmente, e la cura diventa una terapia, omeopatica per giunta.
Se gli Usa preoccupano, ciò che però deve realmente interessare è casa nostra. L’Europa in questi anni di trumpismo ha, forse per reazione, puntato ad accelerare sempre più il suo processo di unificazione, prima con le prese di posizione di Francia e Germania, poi con un accenno, seppur mite, alla creazione degli Eurobond, passando per la volontà di rendere la Commissione Europea qualcosa di assimilabile ad un governo federale e ora, addirittura, progetti di risposta comune alla pandemia. Ma anche qui, nella nostra Unione, c’è lo spettro del trumpismo, anzi, la sua incarnazione, varie incarnazioni: dagli esempi nostrani a quelli dei cugini d’oltralpe, dai Brexiters a tutti i partiti che si fregiano del titolo di difensori della libertà e della giustizia. Queste idee hanno già permeato le menti di milioni di persone, hanno messo le radici e non se andranno con Biden, così come in Italia non se ne sono andate dopo la caduta del Conte I o in Francia con la vittoria di Macron. E come ci vorrà tempo dall’altra parte dell’Oceano per disperdere quei sentimenti e quella cultura “bannoniana”, ce ne vorrà anche qui. La sconfitta della persona non coincide mai con la sconfitta dell’ideologia di cui si fa portatrice, altrimenti certi luoghi di pellegrinaggio, frequentati assiduamente da nostalgici dei regimi totalitari e dei loro leader, sarebbero deserti.
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